4 PAURE E 1/2 DEL TERAPEUTA: IL SUICIDIO

4 PAURE E 1/2 DEL TERAPEUTA: IL SUICIDIO

“Questa storia del pericolo! Bah! Al diavolo! L’idea del pericolo comincia nella mente dell’analista… c’è tutta la serie di pericoli immaginati dagli analisti. Sono loro a spaventarsi, appartengono a loro le paure. Paura numero uno: la paura che un paziente si suicidi. O la paura di essere sedotti o di sedurre il paziente… Paura numero tre: La violenza… ah, si, la paura della psicosi ovviamente (E la paura che il paziente non paghi, non dimentichiamo neanche questa)” (Hillman in Il linguaggio della vita).

Sapete cosa vi devo confessare oggi? Qualcosa che vi risulterà piuttosto indigesto. Per questo, anche per chi, tra di voi, avesse letto il nostro caro Hillman nel suo “Codice” o nel suo “Il suicidio e l’anima”, la tendenza è a tralasciare, dimenticare il bellissimo messaggio che vi è contenuto. Si perché quando la bellezza è data dalla crudezza e dall’aspetto terribile e terrifico, allora tendiamo a difenderci e a obliare. La bellezza dell’efferatezza delle emozioni. Ma veniamo al dunque…


La psicoterapia è il luogo in cui alcune immagini, quelle che altrove sono intollerabili, possono razzolare con un certo grado di libertà. E tra queste non ci sono solo quelle che risultano accettabili dal mondo e dalla psicoterapia, ma anche quelle che la stessa psicoterapia rifiuta. Insomma… mai dire a un ansioso “stai calmo”, o a un depresso “su con la vita”, sarebbe come chiedere ai pazienti di non vivere quella dimensione in cui è contenuto il messaggio, sarebbe come chiedergli di non viversi. E se dalle emozioni passiamo alle condotte, anche dire a un tossicodipendente di non drogarsi o a un ladro di non rubare, oltre ad essere del tutto inutile perché già lo sanno, rischia di farci incappare nel medesimo errore.

Per certi versi la Psicoterapia è il luogo in cui si impara a convivere con quelle parti di noi e con le parti dell’altro intollerabili. E se quelle parti devono vivere, questo è ciò che mette a fuoco Hillman, e sia, con tutte le conseguenze del caso. Allora “NON TI UCCIDERE” è certamente una sorta di comandamento per la psicoterapia eppure, comunicarlo ai pazienti ha poco senso. Anche in questo caso già sanno di non doverlo e volerlo fare. Spesso i pazienti non vogliono essere salvati da ciò che non gli piace di loro, anzi quasi sempre, vengono per essere assolti, o per ricevere il permesso di esserlo. Ah..! Quanto la psicoterapia somiglia alla religione, e quanto avverto spesso che, nel perfetto solco familiare mi sono collocato, di quella mia famiglia che di preti e clericali ne ha avuti tanti. Ecco anche questa è una confessione e questo è, sempre, anche un confessionale.
È in questa falsa riga che una tra le paure più grandi del terapeuta compare proprio quella che il paziente si suicidi. Il suicidio potremmo dire sia l’evento più temuto perché ci mette alla prova su più fronti. Il primo pensiero che fa un terapeuta è qualcosa del tipo “E adesso che succede? Mi denunceranno per incompetenza? L’ordine professionale mi radierà? Che ne sarà di me e della lucente immagine che ho presentato al mondo come professionista?” Questo primo livello è il più infido perché rinverdisce la maschera del terapeuta e gli ricorda che, per quanto egli si sia impegnato, è tutt’altro che libero dai condizionamenti sociali. E, vi confesso anche stavolta, questo pensiero mi attraversa di continuo, con ogni singolo paziente, c’è un tutore della mia maschera che scorrazza nella mia anima ma, per mia fortuna, non si ferma mai… mi attraversa, si, ma non si ferma.
Il secondo Pensiero ha a che fare proprio con il mio sentirmi competente. Inizio a pensare a quella possibile mossa, a quale mossa io abbia sbagliato per non essere riuscito ad impedire che accadesse. Oppure quella mossa che ha provocato il l’infausto evento, qualunque esso sia, magari quella volta che ho guardato l’orologio e il paziente se ne è accorto, magari quella volta che mi sono grattato il sopracciglio mentre pensavo ad altro… ah quanto ci piace, ve lo confesso ancora, essere onnipotenti. ma siamo sicuri che la psicoterapia abbia il potere di generare reazioni in modo così puntuale?

Siamo talmente incastrati nell’immaginario di “potenza del terapeuta” che rischiamo sempre di non essere terapeutici. E adesso cosa penseranno? Chi mi invierà più pazienti? Qui c’è la seconda maschera che uno psicologo, specie se in erba, fatica a dismettere. E somiglia alla prima. Quella del salvatore le cui gesta, per minute che siano, producono effetti incommensurabili sul mondo intorno a lui. Ecco ancora la confessione di chi deve ogni giorno, ogni ora, ogni seduta ricordarsi di rinunciare all’idea che ciò che farà sarà così fondamentale. La fede psicologica è quella che ci fa fare il nostro lavoro, consci del fatto che ciò che deve accadere accadrà secondo necessità. Allora il guarire, che etimologicamente significa proprio “impedire”, rischia di diventare un comandamento, una catena.
Poi c’è il terzo, quello in cui, se si lavora con le emozioni, per quanto si tenga una distanza dai pazienti, considerando che in verità quella distanza deve essere il più possibile annullata, un evento così difficile ci colpisce fin dentro le ossa. E, per quanto ci vogliamo dichiarare pronti a emozionarci, ogni volta cerchiamo di non farlo avvenire.
“Basta m’ammazzo!” Oppure “Dottore ho paura… ultimamente ho pensato di poter pensare di voler morire”, Oppure “Dottore ho ragionato su come suicidarmi” Oppure “Dottore non ce la faccio… stanotte avevo le medicine e stavo per prenderle tutte” Oppure… Insomma i modi di dire che ci si vuole suicidare sono molti, molti di più di quelli che cito poiché mancano quelli non dicibili. E direi che molti di più sono i modi di non dirlo facendolo. Quindi quando un paziente porta in terapia la fantasia del suicidio direi che è già un grosso sospiro di sollievo per me… poiché significa che quell’immagine ha acquisito la dignità di esistere nella psiche e nella terapia. Può essere parlata e ogni volta che diamo il permesso di entrare alle parole, allora gli agiti si danno un tempo di sospensione per, una volta parlati, farsi azioni orientate.
Ma allora, ve lo rivelo, la psicoterapia, dopo aver valutato ed escluso se alle fantasie corrispondono progetti pianificati, non si oppone mai al suicidio al livello immaginale. La morte nei sogni, la morte nelle fantasie è sempre la manifestazione di un profondo bisogno di metamorfosi e, per estensione lo è il suicidio. Il fatto che avvenga nel concretismo è, spesso un mero errore di comprensione. Si colpisce il corpo senza accorgersi che si avverte il bisogno di colpire una parte psicologica di noi affinché si metamorfizzi. Questo bisogno viene confuso col corpo. Allora eccola la psicoterapia che si rivolge proprio a quel processo e, così facendo, riporta il focus fuori dal corpo e, come effetto collaterale, salva proprio lui, il corpo.
Per questo la domanda che contempla sia il primo che il secondo livello, il concreto e l’immaginale, è sempre banalmente la stessa… “Come stava pensando di farlo?”. Questa è la domanda che salva, (monitorando) il corpo da una parte, e salva la metamorfosi della psiche dall’altra, semplicemente osservandola.
Ma c’è di più, e qui vi confesso che non sono proprio bravo, la psicoterapia è testimonianza innanzitutto, non guarisce, non impedisce, testimonia, accompagna, sostiene, rende confortevole il viaggio verso la propria individuazione. Allora quando in terapia giunge chi ha nell’animo di individuarsi attraverso il suicidio del corpo, allora siamo chiamati a stare in quella angoscia, a sostare, e stagnare. Perché la maggior parte delle volte chi si suicida chiede di essere fermato, mentre le volte in cui viene per chiedere il permesso, si deve esser pronti a esserci, qualsiasi siano gli eventi… esserci.
Eppure ancora non si sente la confessione vero? Non c’è autenticità nelle mie parole, c’è ancora la titubanza del benpensante, del politicamente corretto, c’è ancora il timore dello scrittore che vuole essere solo apprezzato e che non vuole provocare lo sdegno di nessuno. Per questo finora avrete appreso qualcosa in più del terapeuta e non dell’uomo. Allora adesso la confessione passa nelle sue mani, quelle di colui che ha transitato l’evento suicidario dentro le mura di casa sua e una cosa l’ha capita… tutto ciò che non va nella propria famiglia e che contribuisce a non distrarre l’omicida di se stesso dai suoi intenti nefasti, è, al tempo stesso, tutto ciò che permetterà ad ogni singolo membro di quella famiglia di restare in vita. Le difese! Ahh le difese, le tanto deprecate difese! Sono quelle che salvano la vita a chi resta sulla Terra, ai survivors.

Allora forse il suicidio è una incapacità di sviluppare meccanismi di difesa, di sviluppare processi psicologici in grado di obliare, distorcere, manipolare la realtà fino a renderla accettabile? Si, perché la realtà, senza difese è sempre profondamente inaccettabile. Allora quando parlo con i miei morti, quelli a me vicini, gli dico sempre le stesse parole… “Vedi? Non è cambiato granchè. Tutti si sono interrogati il giorno stesso, al tuo funerale, magari al trigesimo ma poi? Poi gli ansiosi hanno continuato a idolatrare il controllo, gli intellettuali Apollo, i pragmatici la terra. Perché avevi la pretesa che ognuno smettesse di credere nel suo dio? Perchè non ci hai accettato così come siamo, con tutti i nostri difetti, difese, dissensi? Ma, soprattutto, perchè non hai cercato di farlo con te?


The day I’ve felt alone the most – Carlo Diamanti

Allora eccolo il suicidio, è l’atto supremo attraverso cui non si accetta di piegarsi al proprio dio, non sia accetta che ognuno si pieghi al suo. Non si accetta la sottomissione in cui Psiche trova sempre la sua forza. E la psicoterapia è lì e deve fare ciò che i benpensanti non accettano, ossia che sia lei per prima a piegarsi al dio dei pazienti, che invochi gli altri dei si, ma che mantenga sempre presente il fatto che deve operare la testimonianza partecipata della propria inutilità. E se tra quegli dei c’è il suicidio allora che quel dio ce la mandi buona. Insomma mai, e dico mai, stringere un recinto contenitivo intorno al dio che i pazienti portano in terapia. Invece sempre, e dico sempre, aprire i cancelli dei recinti angusti nei quali sono stati rinchiusi tutti gli altri dèi. Mai eliminare un sintomo presente, sempre sollecitare le funzioni silenti. Insomma se avete accanto a voi un depresso, non cercate di uccidere la sua depressione, ma di crescere la sua creatività.

“Non penso lei mi stia chiedendo se è pazzo, o di guarirla, o di impedirle di fare alcune cose… ho più l’impressione che lei mi stia chiedendo se sono disposto a esserci, qualunque e chiunque lei sia. Ebbene io me la sento”.

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Dott. Luca Urbano Blasetti

Psicologo Psicoterapeuta

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