Tossicodipendenza. Prospettive e trattamento. La Comunità di recupero
Troppo spesso ormai ci giungono gli echi sociopolitici di chi avanza teorie sulla legittimità o meno di alcune sostanze psicotrope; troppo spesso siamo costretti ad ascoltare la psicologia ingenua andare alla ricerca delle cause ultime che conducono al disagio o alla tossicodipendenza; troppo spesso vediamo l’umana complessità emotiva e relazionale ridotta a mero calcolo, il cui risultato ultimo deve essere: “non ho nulla da rimproverarmi”.
Quali sono in realtà gli effetti delle sostanze psicotrope? E’ vero che “smetto quando voglio”? Quali le caratteristiche di chi ne fa uso? E’ nell’esperienza di chi scrive la sempre maggiore consapevolezza che l’esistenza di una netta demarcazione tra ciò che è normale e ciò che è patologico, sia l’utopica necessità di una società “adolescente” costretta a misurarsi con l’era matura post-basagliana.
L’esperienza cumulata nell’operatività della Comunità Emmanuel, fondata nel lontano 1980 da Padre Mario Marafioti e Enrica Fuortes, e nel 1991 da Don Paolo Blasetti, per quanto riguarda il Centro omonimo (in onore del fratello defunto), sito sul territorio del comune di Rieti, ci permette oggi di poter rispondere in parte alle domande su scritte. In questa prima occasione mi soffermerò più su aspetti fisiologici riservandomi, poi, di soffermarmi su dimensioni più squisitamente psicologiche.
Il primo aspetto su cui ci corre l’obbligo di prestare attenzione è quello relativo alla “vulnerabilità individuale” ossia la misura fisiologica con cui il nostro organismo assorbe e risponde alle sostanze in genere. Si sottolinea qui, come la dimensione del danno non sia standardizzabile ma quantificabile solo relativizzandola al soggetto che ne fa uso. In estrema sintesi per ogni sostanza, ognuno di noi tende a rispondere in maniera differente in termini di danno cerebrale, livelli di assuefazione, reattività tossica. Non si può parlare di droghe leggere o pesanti se non in riferimento a ogni singolo individuo.
Un secondo aspetto rilevante, è quello relativo al potere di assuefazione di ogni singola sostanza. Erroneamente si ritiene che gli oppiacei, come l’eroina, siano le sostanze con il maggior potere di assuefazione mentre, in realtà, il primato spetta alla cocaina e alla nicotina. Il THC (tetraidrocannabinolo), le canne per capirci, non sempre risultano la sostanza che traghetta verso le, impropriamente dette, droghe pesanti, mentre la nicotina sembra essere presente nell’esperienza di tutti i tossicodipendenti.
Oggi, non solo esiste una tossicodipendenza drug free (senza sostanze) come quella da shopping, da gioco d’azzardo, da ricerca di informazioni, da videogiochi ecc., ma esiste una modalità di assunzione che ancor più illude sul potere di gestione. Il “consumo ricreativo”, ossia del fine settimana, produce l’illusione di dominare le sostanze mentre sappiamo che la crisi astinenziale da cocaina emerge proprio dopo 6 o 7 giorni dall’assunzione. Mi rifaccio il sabato successivo perché voglio, e invece sono già dipendente e evito la crisi d’astinenza.
Gli endocrinologi ci ricordano poi, come l’attivazione cerebrale dovuta ai rituali impiegati per reperire la dose, sia maggiore di quella ottenuta dalla somministrazione della sostanza stessa (come emerge con studi effettuati a mezzo TEP o RMNf). Quasi a dire che è più godibile tentare di farsi, piuttosto che farsi; la ricerca spasmodica della sostanza è come l’impavida risalita del fiume da parte di un salmone, che insegue il piacere di riprodursi ma il cui acme di godibilità precede l’atto sessuale e coincide con l’adrenalinica strategia impiegata per evitare le fauci degli orsi. Così Gerra racconta la tossicomania.
In estrema sintesi tutte le conoscenze ingenue sulle sostanze sono sommarie e non aderenti alla realtà. Tutte le droghe, specie quelle di nuova generazione, modificano irreparabilmente le strutture cerebrali deputate al piacere. L’assunzione delle sostanze costituisce una deliberata scelta verso una cecità emozionale, verso la dipendenza da un agente, un veicolo senza il quale i sensi non registrano più nulla. Sarebbe come non riuscire a gustare più un gelato in assenza dei coloranti che in apparenza ne esaltano il gusto.
Ognuno ha una sua vulnerabilità individuale, nessuno sa se la prima assunzione sarà anche l’ultima, ognuno “smette quando vuole”… la sostanza, l’oggetto o il soggetto, che permettono di contenere l’inesorabile confronto con il mal di vivere. Per ognuno l’erba del vicino è sempre più verde ed il proprio giardino mai abbastanza bello.
Ci siamo soffermati su temi cari agli endocrinologi, ora, come promesso, cercheremo di mettere a fuoco le dimensioni psicologiche della tossicomania, care invece a chi scrive.
La letteratura suggerisce classificazioni degli utenti tossicodipendenti riempiendo le bocche di: “sono tutti borderline”, diagnosi doppie ovvero madri invischianti per padri assenti o viceversa. Spesso ci accorgiamo invece che c’è una complessità maggiore che coinvolge i familiari tutti, il sistema famiglia, la squadra. Ci accorgiamo come la tossicodipendenza di “Uno” sia piuttosto l’esito del disagio collettivo o di equilibri familiari disfunzionali, emergenti come l’esito di una diffusa paura di confrontarsi con le angosce esistenziali, o con ferite narcisistiche ancestrali.
Con narcisismo ci riferiamo alla incapacità genitoriale di donare esperienze emotive gemellari ai figli; un genitore che non sente empaticamente le emozioni del figlio e non le restituisce, pone le basi per una cognitivizzazione delle emozioni ossia una loro negazione. Da qui la creazione di una immagine ideale di Sé così lontana dalla dimensione reale da generare affanno nel tentativo di essere quello che non si è… e per il cui raggiungimento ci vuole un supporto chimico. Non di rado la tossicodipendenza o l’anoressia vengono annoverate come malattie che sono l’esito di ferite irrisolte dei genitori. I figli risultano pazienti per delega, la vera cura andrebbe rivolta ai genitori che esprimono il disagio attraverso i figli.
La caratteristica principale di un tossicodipendente è, quindi, l’incapacità, o meglio l’assenza di un sistema difensivo psicologico sufficientemente solido, per proseguire nella negazione, familiare, di una dimensione emotiva che trascende la desiderabilità sociale. Le emozioni sono sempre doppie, l’amore presenta l’odio, e la tossicodipendenza è forse l’estremo senso di colpa generato da chi non ammette la doppiezza delle emozioni, cercando di sopprimere chimicamente quelle indesiderate, un autocura emotiva. La tossicodipendenza è anche però il coraggio di non difendersi dalle emozioni, pur non sapendole negoziare. L’ autocura fondata sulla eliminazione dell’angoscia è disfunzionale; l’angoscia non si elimina ma la si può trasformare in dolore dandogli un nome.
Personalmente ritengo che una certa fissità cognitiva, ossia l’impiego reiterato di un’unica strategia per far fronte ai problemi del mal di vivere, sia un altro aspetto sostanziale. Suggerisco e propongo una maggiore creatività come primo mezzo per uno sviluppo psicologico sano. Cambiare strategia il più spesso possibile, anche se quella impiegata è finora risultata vincente!
La proposta terapeutica non può non partire da un contesto di gruppo che risulta avere una funzione contenitiva, da una parte, e una di specchio dall’altra. Promuovere una riduzione della divaricazione tra il reale e l’ideale, una alfabetizzazione emotiva, l’educazione al pensiero creativo e, infine, una mediazione familiare orientata a rinnovare gli equilibri e a modificare un lessico cristallizzante e immobilista, vanno a costituire le azioni di primo livello. Le operazioni di secondo livello sono invece sintetizzabili in “pazienza” e tolleranza alla frustrazione, ricordando che l’aiuto, nella accezione più ampia del termine, non consiste nel dare soluzioni, generalmente funzionali solo a chi da aiuto e non a chi ne riceve, ma avere il coraggio di accompagnare l’altro, condividendone quindi il dolore senza tacitamente chiedere di eliminarlo, nella ricerca di quelle personali.
La proposta terapeutica non può non partire da un contesto di gruppo che risulta avere una funzione contenitiva, da una parte, e una di specchio dall’altra. Promuovere una riduzione della divaricazione tra il reale e l’ideale, una alfabetizzazione emotiva, l’educazione al pensiero creativo e, infine, una mediazione familiare orientata a rinnovare gli equilibri e a modificare un lessico cristallizzante e immobilista, vanno a costituire le azioni di primo livello. Le operazioni di secondo livello sono invece sintetizzabili in “pazienza” e tolleranza alla frustrazione, ricordando che l’aiuto, nella accezione più ampia del termine, non consiste nel dare soluzioni, generalmente funzionali solo a chi da aiuto e non a chi ne riceve, ma avere il coraggio di accompagnare l’altro, condividendone quindi il dolore senza tacitamente chiedere di eliminarlo, nella ricerca di quelle personali.
La proposta terapeutica non può non partire da un contesto di gruppo che risulta avere una funzione contenitiva, da una parte, e una di specchio dall’altra. Promuovere una riduzione della divaricazione tra il reale e l’ideale, una alfabetizzazione emotiva, l’educazione al pensiero creativo e, infine, una mediazione familiare orientata a rinnovare gli equilibri e a modificare un lessico cristallizzante e immobilista, vanno a costituire le azioni di primo livello. Le operazioni di secondo livello sono invece sintetizzabili in “pazienza” e tolleranza alla frustrazione, ricordando che l’aiuto, nella accezione più ampia del termine, non consiste nel dare soluzioni, generalmente funzionali solo a chi da aiuto e non a chi ne riceve, ma avere il coraggio di accompagnare l’altro, condividendone quindi il dolore senza tacitamente chiedere di eliminarlo, nella ricerca di quelle personali.
Un aspetto che però mi fa sorridere è come la popolazione giovanile sia così protesa a deridere il povero fanciullo che si tira indietro davanti alle sostanze. Rifletto infatti come la droga vada a costituire, in ultima analisi, il sostituto innaturale, non sublimato, dell’oggetto transazionale: l’orsacchiotto, il ciucciotto o il lenzuolino, ossia dell’oggetto che riduce ritualmente l’angoscia d’abbandono di fronte alla Mamma assente. Rifletto su come la graduale eliminazione di tali oggetti costituisca un criterio di buona crescita e, nonostante mi impegni al massimo, non riesco a comprendere cosa ci sia di così “fico”, trendy o cool nell’urlare in continuazione, attraverso ogni dose, tiro o “pippata”: VOGLIO MAMMA!
La parola Eroina rinvia all’Eroe. L’Eroina è sostanza che eroicizza e il tossicodipendente è colui che non sa rinunciare a un immaginario eroico di indistruttibilità. L’Ercole impavido, l’Achille invincibile sono quelle parti di noi che in ogni psicoterapia devono divenire mortali e poi morire. Nella tossicodipendenza questo processo risulta particolarmente arduo.