Normalità e Follia
Questa volta faccio tutto in anticipo, non sia mai che arrivi in ritardo. Poi che penserà? Che non mi interessa! E poi meglio evitare equivoci sennò va a finire che mi dice che lo sapeva, che io sono così e che ho fatto le scelte sbagliate, che se non imparo l’arte della leggerezza non vado da nessuna parte, che penso troppo e parlo troppo. Penserà che sono pazzo ma non me lo dirà per pudore. Chissà se mi troverà la cosa più noiosa che gli sia mai capitata.
Insomma nel giro di meno di un’ora gli racconto tutta la mia vita, ansie, paure, rabbie, delusioni con timide escursioni sul mio passato sessuale, poi riprendo fiato e osservo il suo sguardo su di me e già penso che ha già deciso e quindi glielo chiedo … si … del resto con quello che costa… -“Dottore pensa che io sia pazzo?”-
Lui inspira, prende il fiato necessario per rispondere senza pause, per dire quello che non ha detto ascoltando il mio frenetico riassunto, mi osserva e “vede io ho un problema, lei mi ha messo in una via senza uscite…” dice. Io sgrano gli occhi socchiudendoli nel terrore di ritrovarmi tra i sani o tra i condannati all’inferno e, superata quella eterna piccola pausa, lo sento proseguire –“… se le dico che è pazzo la rifiuto mentre se le dico che non è pazzo la nego … forse lei in realtà mi sta solo chiedendo se sono pronto a vivere con lei le sue angosce, accogliendola in questo suo momento … e a questa domanda posso dare una risposta.-
Piansi asciutte lacrime di orgoglio facendole ricadere all’interno del mio viso, lo salutai cordialmente e con voce rotta … -“Ci vediamo la prossima settimana dottore”- dissi… e lui sorrise.
Un racconto breve, uno spaccato che ci suggerisce come la situazione terapeutica sia delicata quanto un fidanzamento o un matrimonio. Le aspettative si legano alle paure senza accorgerci che, nella nostra mente, l’altro è sempre come ce lo aspettiamo, abbiamo bisogno che sia così e se a posto di un carnefice troviamo un benefattore, un brivido di delusione scorre lungo la schiena.
Quello che non si vede nel racconto sono le insonnie, le ire e i deliri che hanno condotto alla richiesta di un aiuto. Ire che nell’era prebasagliana avrebbero condotto ai manicomi con le loro costrizioni e le loro diagnosi efficienti che spuntavano come grossi funghi preautunnali a soddisfare l’ego di chi li trovava. Fortunatamente Basaglia ci ha suggerito che l’ottica deve essere ribaltata, facendo passeggiate con l’obiettivo di non trovare nulla perché è chiaro che chi cerca trova, anche la pazzia, i “cocci” poi però restano al “pazzo”.
La legge 180 ha restituito alla società la verità dei “giullari di corte” che potevano dire le verità celate dietro le persone, ricordando che l’etimo di persona è maschera. Ma usciamo dal semplice buonismo del “i matti siamo noi”, la chiusura dei manicomi prevedeva l’attivazione di servizi di prossimità in grado di accompagnare e seguire quei casi che, indubbiamente, richiedono un’assistenza psichiatrica. In questo la società ha fallito e oggi le famiglie reclamano i luoghi di contenzione perché il “matto” è difficile da gestire. Non hanno fallito invece le cooperative, le onlus che, raschiando gli spiccioli dai pozzi dei denari pubblici, sopperiscono alle lacune formative e organizzative dei Centri di Salute Mentale.
Qui però è mio interesse restituire un paio di criteri che ritengo oggi più adeguati per stabilire il confine tra la normalità e follia, sottolineando che, quanto segue, . Al centro di tutto è opportuno inserire le immagini. Quelle oniriche o emergenti nel diurno, quelle che sembrano avere vita propria, che ci possiedono e che facciamo finta di tenere sotto il nostro dominio. Il “folle” parla di queste e a queste immagini, a queste allucinazioni che comunemente ricadono nella sfera del non reale e che invece per il malato psichico sono alla stessa stregua di ciò che viene colto con i sensi.
Noi ci disfiamo di tali immagini mentre il folle non ci riesce e finge di non aver “sognato” a nostro uso e consumo. Prendiamo un esempio comune, una di quelle occasioni in cui tra due persone si ricorda un evento passato condiviso… -quella volta in cui andammo a cena fuori e litigammo- dice uno… -quella volta eravamo al bar…- dice l’altro…
A questo punto i due amici si fermano e uno continua ad affermare che erano a ristorante mentre l’altro che erano al bar. Ognuno è certo di ciò che dice e ognuno difende il suo ricordo. Poi, di fronte al vigore dialettico reciproco, entrambi sono sfiorati e perturbati all’idea dell’assenza di un piano comune di realtà e, sapientemente, iniziano a ricostruirlo negoziando come in un suq (mercato arabo), fino a che il prezzo finale non accontenta tutti e due in un turbinio di dubbi. Faranno finta di essere stati al bar o a cena, l’importante è una realtà condivisa. Condivisibilità questo il principale criterio per definire la realtà secondo il senso comune.
Ora proviamo a immaginare una situazione in cui la negoziazione tra i due attori sociali di cui sopra si risolva, nel tempo e nello spazio, sempre con la vittoria dello stesso individuo a scapito dell’altro. Immaginiamo inoltre che il primo manifesti inoltre una falsa disponibilità ad accogliere i ricordi dell’altro come veri, una falsa disponiblità che si pone ancora una volta come verità a cui sottomettersi da parte del “sottoposto”. In questo caso l’unico modo di parlare della verità che resta a quest’ultimo è quello giullaresco del folle che dice le verità a patto che nessuno ci creda.
Il folle rinuncia sempre alla sua realtà per la nostra e in questo caso dimostra di volerci molto bene. A volte invece non rinuncia mai mostrando di essere arrabbiato. In ogni caso la follia può essere intesa come una generale incapacità a negoziare la realtà, come l’eterna condanna a comprare al prezzo più alto nel suq della vita o non comprare a causa di un mancato accordo.
Il criterio di negoziabilità ci permette di sdoganare la malattia mentale dal criterio di realtà la cui relatività è stata ormai sancita dalla filosofia da tempo. La psicologia, dal canto suo, per il gusto del potere ha alimentato i sistemi diagnostici nati in seno alla psichiatria. Ha inoltre costruito la patologia sul concetto di trauma e quello di difesa psicologica, costringendo da una parte alla ricerca dell’evento originario, dall’altra a definire le varie tipologie delle difese psicologiche ritenute causa sufficiente per il disagio psichico.
Tali difese psicologiche sono quelle che ci permettono di “rimuovere” contenuti angoscianti, oppure proiettarli su altri come nel caso in cui l’odio per qualcuno si trasforma nell’odio di costui verso di noi; possiamo negare alcuni aspetti oppure razionalizzarli o intellettualizzarli privandoli delle loro componenti affettive. Tali meccanismi sono quelli con cui negoziamo e ci difendiamo dalla realtà, quelli che la psicologia pone alla base delle nevrosi e del disagio psichico nell’ottica per cui tali contenuti , trasformati o rimossi, continuano a logorarci.
E se invece ribaltassimo l’ottica e provassimo a pensare che il disagio psichico nasce proprio laddove le difese sono scarse o assenti. In questo caso la realtà si presenterebbe in tutta la sua forza e con tutte le componenti allucinatorie (sogni, deliri, paranoie, ossessioni ecc.) non rimosse, non trasformate e non freddate delle loro componenti affettive. Chi sarebbe in grado di sopportare questo carico psicologico?
Solo i saggi ma per chi scrive è difficile dimenticare che simbolicamente il mito ci suggerisce che i saggi coincidono coi folli, “sembrare pazzi è il segreto dei saggi” (Eschilo).
Chi non sa negoziare la realtà e “difendersi” da essa è folle, ma non di rado questa condizione è il punto di arrivo di un percorso terapeutico di cui l’incipit di questo scritto costituisce solo l’inizio.