Internet e realtà virtuale: Personalità e identikit di un navigatore seriale
Introduzione
Nonostante i natali dell’era digitale siano collocabili all’inizio della seconda metà del XX secolo, solo alla fine di questo si registra la rivisitazione di concetti che cambieranno le definizioni di ciò che è “virtuale” e la sua stessa concezione: stiamo parlando precisamente dei concetti di “Presenza” e di “Immersione”. Le ricerche sperimentali a riguardo, dopo una prima fioritura negli anni 70’, hanno visto, all’inizio degli anni 90’, una ridefinizione del campo di indagine, ricomprendendo gli ambienti virtuali come luoghi principali per le opportune operazioni. La consistenza teorica ad essi relativa ha dovuto però attendere una metamorfosi paradigmatica del concetto stesso di “realtà virtuale”. La definizione di questo nuovo medium si è infatti a lungo basata su criteri di materialità tali per cui la realtà virtuale era tale in funzione dell’ hardware tecnologico (computer e sue interfacce).
Steuer (1992) sottolineava come una definizione costruita su questi aspetti, più che su quelli esperenziali, non sia accettabile in quanto fallisce nell’esplicitazione dei processi e degli effetti derivanti dall’uso di questi sistemi; fallisce inoltre nella creazione di un’estetica e di un metodo per la progettazione e/o la fruizione, della realtà virtuale stessa. Questo inquadramento teorico non specifica quali siano le unità d’analisi ne tanto meno le dimensioni lungo le quali varia la realtà virtuale. Quello di Steuer rappresenta quindi uno dei primi tentativi di definire la realtà virtuale come una particolare esperienza più che come una collezione di hardwares. Proprio il concetto di “presenza”, e meglio ancora quello di “telepresenza”, hanno rappresentato la chiave di volta di questo impasse teorico.
La “presenza” è definibile, in termini più generali, come l’impressione di trovarsi in un dato ambiente, alla cui fisionomia contribuiscono fattori psicologici provenienti da più canali; l’attenzione e i processi mentali che provvedono ad assimilare nuovi dati percettivi a quelli passati sono alcuni di questi. Nella percezione non mediata questa dinamica viene data per scontata, mentre nella percezione mediata tecnologicamente si è obbligati a esperire simultaneamente due ambienti, reale e virtuale, che possono essere in una relazione di complementarietà ovvero di antagonismo.
La consapevolezza di questa realtà “aumentata” è stata genitrice del concetto di “telepresenza” definibile come l’esperienza della “presenza” in un ambiente mediato piuttosto che in quello reale.
I contributi sull’argomento hanno visto il succedersi frequente di terminologie sostitutive rispetto a quelle originali: così ad esempio Sheridan (1992) ha fatto riferimento alla “presenza” come all’impressione di essere in un ambiente virtuale più che in quello fisico attuale, relegando invece il concetto di “telepresenza” ai soli casi di teleoperazioni coinvolgenti (anche noi seguiremo questa distinzione). Inoltre ha identificato le componenti principali del sense of presence, quali l’ammontare dell’informazione percettiva, l’abilità dell’osservatore di controllare l’ambiente in cui si sente “presente” e l’abilità nel modificarlo.
Sono stati poi Mehan (2002); Slater (2004); Slater & Wilbur (1997) a parlare di “presenza” come l’”illusione della non mediazione” sottolineando come quanto più il comportamento messo in atto in ambiente virtuale è sovrapponibile a quello rilevato nell’ambiente reale, tanto più alto sarà il livello di “presenza” esperito.
Un gruppo di ricerca attivo presso il Laboratorio di Psicologia Generale, delle Arti e dello Spettacolo, coordinato da Paolo Bonaiuto nel Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”, e del quale hanno fatto parte anche gli autori della presente nota, ha sviluppato una corrispondenza con il B.J.Witmer e avviato un lavoro di traduzione e validazione dello strumento Immersive Tendencies Questionnaire (ITQ; Witmer & Singer 1996,1998).
I due autori americani prima citati si erano infatti adoperati nella definizione simultanea del concetto di “immersione”, da intendersi come “lo stato psicologico caratterizzato dal percepirsi avvolti, inclusi e in interazione con un ambiente che provvede ad un flusso continuo di informazioni”. Hanno quindi costruito due strumenti, il Presence Questionnaire (PQ) e l’Immersive Tendencies Questionnaire (ITQ) per l’appunto, che possono essere considerati come dispositivi atti a valutare rispettivamente caratteristiche di “stato” e di “tratto”. In letteratura emerge infatti come i valori espressi dall’ITQ siano predittivi di quelli emergenti successivamente dal PQ in uno specifico contesto virtuale (Witmer & Singer 1996,1998).
Nel presente contributo si fornisce una rassegna essenziale della letteratura sull’argomento e gli esiti di un indagine personologica sulla forma italiana dell’”ITQ”, ossia il Questionario sulle Tendenze Immersive (QTI).
I costrutti di “Presenza” e “Immersione”: aspetti fenomenologici e misure
È necessaria una prima puntualizzazione teorica riguardo al concetto di “immersione”, a volte ingiustamente assimilato a quello di “presenza”. Si sottolinea preliminarmente il fatto che l’”immersione” incide sulla “presenza”, che entrambe correlano positivamente con la performance (Witmer & Singer, 1998; Slater et.al., 1996), e che si impone una misura della “presenza” indipendente dalle valutazioni impiegate per l’”immersione” e dai fattori che influenzano quest’ultima. In estrema sintesi, con l’“immersione” ci riferiamo ad aspetti temperamentali che prescindono dallo specifico contesto, ossia alla generale tendenza a trovarsi in un ambiente “altro” rispetto a quello fisico.
Mentre per l’”immersione” esistono esclusivamente strumenti psicometrici di tipo self report, non altrettanto si può dire per i metodi impiegati per valutare la “presenza”. Un primo approccio metodologico è quello che prevede la misurazione della “presenza” attraverso l’osservazione del comportamento o più in generale attraverso l’impiego di misure “oggettive” (quali la frequenza cardiaca; la conduttanza cutanea ecc).
Vero è che i metodi basati sull’osservazione spesso risentono di una specificità ambientale, nel senso che risultano specifici per un dato contesto e compito, e quindi non utilizzabili in ogni situazione. Questo problema è in parte superato da quei metodi, come quello di Welch (1997), che misurano gli after-effects.
I metodi più diffusi sono quelli self reported e le proposte più interessanti in questo senso sono, tra le altre, quelle di Welch, Blackman, Liu, Mellers & Stark (1996), i quali hanno basato il loro questionario sulla rilevazione comparata dei valori di presenza riportati nel mondo reale e in quello virtuale. Per Witmer & Singer (1998) il sense of presence nasce dall’interazione tra la stimolazione sensoriale, i fattori ambientali che incoraggiano il coinvolgimento e l’”immersione”, e le tendenze interne a divenire coinvolti. Inoltre questi autori fanno notare che esistono diversi gradi di “presenza”, in funzione dell’”idraulica” dell’attenzione. Su questi criteri hanno costruito il Presence Questionnaire.
I metodi basati sul self-report risentono però, di distorsioni derivanti da effetti di training e dalla tendenza a confermare le aspettative dello sperimentatore. Un contributo che cerca di superare queste limitazioni è quello di Slater & Steed (2000). Dall’osservazione delle varie metodologie di misurazione della “presenza”, i due ricercatori inferiscono che la fenomenologia relativa acquista interesse in quei casi in cui si manifesta l’antagonismo tra due tipologie di ambienti, nello specifico quello reale versus quello virtuale. In questo senso si potrebbe pensare alla “presenza” come un selettore dinamico che agisce sulle realtà in competizione. La misurazione della “presenza” si basa qui sul concetto di figura-sfondo, o meglio sui fenomeni di alternanza tra figura e sfondo, così come accade in certe altre alternanze con immagini ambigue. L’idea è che il numero di transizioni tra le due soluzioni percettive, nello specifico tra ambiente virtuale e ambiente reale, fornirebbe una stima del grado di “presenza”. Bisogna però tener presente che la semplice richiesta di riferire autonomamente le diverse transizioni e le loro caratteristiche, fa aumentare sensibilmente il numero delle transizioni stesse (Slater & Steed, 2000).
Non è necessaria la completa dislocazione dell’attenzione dall’ambiente fisico a quello virtuale, infatti il livello di “presenza” nella realtà varia tra le persone, che generalmente dividono l’attenzione tra il mondo fisico e quello mentale, in parte costituito anch’esso di informazioni prese dal mondo reale. La “presenza” varia quindi in funzione dell’investimento delle risorse attentive le quali, superata una determinata soglia, aumenteranno il livello di “immersione” e quindi di “presenza”.
Come prima conseguenza della focalizzazione dell’energia e dell’attenzione su un set coerente di stimoli, attività ed eventi significativi, si genera uno stato psicologico detto “coinvolgimento”, il cui livello dipende direttamente dal significato attribuito a questi elementi. All’aumento del coinvolgimento segue un incremento della “presenza”, viceversa nel caso in cui si è concentrati su problemi personali.
“L’impressione di sentirsi inclusi ed interagenti con un ambiente che provvede ad un flusso continuo di stimoli” viene invece definita “immersione”, ed è correlata proporzionalmente al senso di presenza. Witmer & Singer (1998) annoverano tra i fattori che incidono su questo stato psicologico: a) l’isolamento dall’ambiente fisico; b) la percezione di auto-inclusione nell’ambiente virtuale; c) la naturalezza nell’interazione; d) la percezione dei propri movimenti. Si può anche aggiungere che l’interazione prolungata nel tempo potrebbe produrre, anche nel caso in cui i media non siano di qualità e l’ambiente virtuale sia mal concepito, livelli alti di “immersione”.
La giovane età di questi concetti ha però generato un dibattito che principalmente ha riguardato il concetto di “immersione”. Se da una parte Witmer e Singer hanno ritenuto di trovarsi di fronte ad una risposta reattiva della persona rispetto al sistema in uso, dall’altra Slater (1999) ritiene che l’”immersione” rappresenti una descrizione del sistema e non della risposta ad esso. Slater afferma che qualora un sistema di ambiente virtuale conceda all’utente maggiori possibilità di interazione e percezione realistica, allora quel sistema è maggiormente immersivo; e ciò a prescindere dalla risposta dell’utente. Per questi motivi Slater adopera il termine “system immersion” per denotare il significato da lui attribuito al concetto di “immersione”, e “immersive response” per richiamare quello attribuito da Witmer & Singer.
Più in dettaglio Slater, Usoh & Steed (1995) si sono riferiti con “immersione” ad una oggettiva descrizione del sistema e di ciò a cui questo provvede, e con “presenza” alla consapevole impressione di trovarsi in un ambiente virtuale, e al corrispondente comportamento messo in atto. Il rapporto tra i due fenomeni si ribalta quindi e la “presenza“ risulta la variabile dipendente, ossia la risposta reattiva psicologica e comportamentale, funzione dell’”immersione”.
Nello stesso contributo i tre ricercatori hanno specificato i criteri secondo cui un sistema risulterà più o meno immersivo, ossia quando esso si presenta come: a) esteso: il sistema è in grado di generare un “accomodamento” del sistema sensoriale sugli stimoli virtuali; b) avvolgente: il sistema è capace di simulare una situazione identica a quella reale fornendo stimoli da tutte le direzioni e attraverso più canali; c) includente: il sistema permette l’autoinclusione con l’esclusione di tutti i segnali esterni; d) vivido: il sistema è ricco di informazioni e con una buona risoluzione dello schermo; e) corrispondente: il sistema fornisce una relazione tra il feedback propriocettivo dei partecipanti, riferito ai movimenti del corpo, e le informazioni generate dalle schermo.
L’”immersione” richiede una auto-rappresentazione corporea per mezzo di un “corpo virtuale”. A tal proposito sono molto interessanti i risultati delle ricerche di Slater, Usoh & Steed (1995), e di Slater, Steed, McCarthy & Marinelli (1998), relative al ruolo di rappresentazioni corporee e di movimento sui livelli di “presenza”. Su queste premesse teoriche Slater, Usoh & Steed (1993), hanno costruito un questionario in cui si chiede di riportare non solo l’impressione di trovarsi nell’ambiente virtuale, ma anche in quale misura questo diventa dominante configurandosi come un “posto” più che come un’immagine.
Dal canto loro Witmer, Jerome & Singer (2005), hanno sottolineato l’interdipendenza tra il coinvolgimento e l’”immersione”, che possono influenzarsi vicendevolmente, e insieme incidere sul sense of presence. Gli stessi hanno segnalato i fattori che direttamente influiscono e sono predittivi del grado di “presenza” esperito in uno specifico ambiente virtuale .
Tra gli aspetti rilevanti, emergenti dall’impiego degli strumenti redatti da Witmer & Singer, si registra una correlazione positiva tra il grado di “presenza” e il livello di performance ottenuto in un compito svolto in ambiente virtuale. Si registra, inoltre, come tra i fattori ritenuti responsabili dell’incremento dell’”immersione”, alcuni incrementino l’apprendimento e altri la performance.
Ma anche sulla definizione di quali siano i fattori che influiscono sul “senso di presenza” non c’è accordo. Ancora Slater (1999) critica i gli altri ricercatori per il fatto che i loro questionari sarebbero costruiti su fattori tutti definiti soggettivamente. Pur riconoscendo a Witmer e Singer di aver definito il “senso di presenza” come la risultante di differenze individuali e caratteristiche dell’ambiente virtuale, Slater (1999) sottolinea come il loro questionario di “presenza” non ammetta la rilevazione separata delle due dimensioni. Slater in sostanza lamenta la mancanza di metodi distinti per misurare “presenza” e i fattori che la influenzano, ossia la carenza di una teoria che sia in grado di prevedere come massimizzare la “presenza”.
Se da una parte Witmer & Singer (1998) peccano di ingenuità teorica nel proporre un concetto di “immersione” e di “presenza” definiti solo soggettivamente, a costo di confondere i due concetti, dall’altra Slater (1999), parlando di “immersione” solo in termini di qualità dell’hardware e del software, tradisce la tradizione teorica da noi presa come riferimento, ossia quella fondata sul recupero del dato fenomenologico come parimenti informativo rispetto al dato fisico. In sintesi entrambe i contributi risulterebbero irrinunciabili e complementari.
Ogni mezzo di riproduzione nuovo porta con sé una nuova semantica che amplia e ridefinisce la realtà, ma ogni sistema di segni non porta significati universali per tutti, ognuno tende a viverli in modo diverso. Inoltre non sarebbe sufficiente la manipolazione di questi segni per modificare i livelli di “presenza” e di “immersione”, è necessario considerare il contesto culturale e la personalità di chi ne fa uso per comprendere come questi segni divengano significati.
Con riferimento ai fattori che incidono sui livelli di “presenza” la ricerca è florida. Si ritiene che incrociando con tali fattori gli aspetti immersivi personologici si possa ottenere una teoria solida su cui costruire le ricerche future. Già da ora sottolineiamo come gli studi su tali aspetti fenomenologici tradiscono la complessità dell’argomento, troppo spesso soffermandosi sulla manipolazione di variabili fisico-strutturali del contesto, ovvero su dimensioni cognitive, tralasciando aspetti affettivi dello stimolo e dell’osservatore e tralasciando altresì dimensioni cliniche rilevanti.
La conoscenza pregressa è uno dei fattori che aumentano i livelli di “presenza”; Prothero, Hoffman, Wells & Groen (1996) rilevano come uno stesso ambiente virtuale produce diversi livelli di “presenza” a seconda che i soggetti possiedano o meno una conoscenza approfondita dello stimolo. Ragionevolmente l’introduzione di elementi di realismo (visione stereoscopica; movimento di parallasse) correla positivamente con la “presenza” Così Welch, Blackman, Liu, Mellers, & Strak, (1996) evidenziano il ruolo del realismo pittorico. Nella stessa direzione procedono i risultati ottenuti da Prothero & Hoffman (1995), sull’incidenza di diverse ampiezze del campo visivo sul grado di “presenza; mentre Schubert, Regenbrecht & Friedman (2002) hanno invece evidenziato come la possibilità di cambiare il proprio punto di vista sia strettamente legata al senso di “presenza”, e hanno mostrato che la “presenza” in generale cresce all’aumentare delle possibilità di interazione corporea con l’ambiente virtuale.
Citiamo un ultimo contributo di Casanueva & Blake (2000), i quali evidenziano come la rappresentazione virtuale dei viventi e la collaborazione ed interazione con i medesimi aumentino i livelli di “presenza”. Ancora notano come i livelli di “presenza” e “co-presenza” correlino positivamente con il realismo di tali rappresentazioni (avatars) presenti nel contesto virtuale.
Lineamenti di personalità connessi con la preferenza per relazioni in ambienti virtuali: Ipotesi e procedura.
Alcuni tratti di personalità, atteggiamenti e patterns comportamentali oggi valutabili in modo preciso, e che comportano difese dalla complessità del mondo emotivo, dovrebbero correlarsi con l’evitamento di rapporti interpersonali potenzialmente conflittuali e con la preferenza per relazioni privilegiate con dispositivi “inanimati” fra cui i videogames, i personal computers, i terminali di reti telematiche, e simili, nonché con persone ma con la mediazione di dispositivi informatici.
Nel corso di una specifica indagine, sono stati intervistati individualmente due gruppi, uno di 168 e l’altro 84 persone adulte, stratificate per genere e per età dai 19 ai 60 anni, di scolarità elevata e reperite tra le province di Rieti, Roma, Parma e Milano. Faremo inoltre riferimento a risultati preliminari (Biasi, Urbano Blasetti & Bonaiuto, 2005) ottenuti con un gruppo di 122 studenti universitari bilanciati per genere. Elenchiamo qui di seguito le scale di valutazione, impiegate con le opportune cautele metodologiche.
- a) Lifestyle Defense Mechanisms (LDM) Inventory, elaborato originariamente da Spielberger & Reheiser (2000), adattato sulla popolazione italiana da Comunian, Biasi, Giannini & Bonaiuto (2001, 2004). Comprende quattro sotto-scale che consentono di valutare lo stile relazionale più o meno difeso.
- b) Scala Alessitimica Romana (SAR), proposta originariamente da Giannini, Baiocco & Laghi (2003), la quale è risultata efficace anche più della nota Toronto Alexithymia Scale (TAS-20), di autori canadesi, per cogliere aspetti legati all’alessitimia.
- c) Dissociative Experiences Scale (DES II). Si tratta di uno strumento, sviluppato da Bernstein & Putnam (1993), il quale valuta caratteristiche di tratto. Il test è composto da 28 item che forniscono una descrizione delle esperienze dissociative. La struttura è del tipo Self Report e la forma italiana è stata curata da Fabbri Bombi, Bertin, Cristante & Colombo (1996).
- d) Adult Adolescent Type A Behavior Scale (AATABS-3), Questo strumento di valutazione è una scala personologica con ventotto coppie di item ordinate su cinque punti (tipo Likert), creata da Wrzesniewski, Forgays & Bonaiuto (1993). Per la sua costruzione si è partiti dalla differenziazione delle variabili psicologiche connesse con il Type A e il Type B Behaviour Patterns (TABP). Il costrutto del Type A introduce a contenuti quali: il bisogno di successo, la tendenza a dominare e a controllare, l’ostilità se contrariati; il dinamismo e la fretta; il type B ha caratteristiche opposte.
- e) State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI, Spielberger, 1992) è una scala di autovalutazione che fornisce misure sintetiche, rappresentative dell’esperienza e dell’espressione della rabbia nei suoi vari aspetti.
- f) STAI di Spielberger, Gorsuch & Lushene (1970), è a tutt’oggi lo strumento più usato ed agevole per la misurazione dell’ansia, distinguendone aspetti di “stato” e di “tratto” .
- g) Immersive Tendencies Questionnaire (ITQ), secondo Witmer & Singer (1994, 1998; cfr. anche Slater, 1999). Questo strumento, tradotto e validato nella forma italiana dallo stesso gruppo di ricerca citato a proposito della presente indagine personologica, consente di valutare la tendenza ad identificarsi con personaggi (letture, cinema, televisione, simulazioni virtuali e altre forme di spettacolo) o protagonisti di varie vicende (giochi e sport), nonché a dipenderne, lasciandosi coinvolgere emotivamente e attentivamente nel corso della percezione interpersonale, diretta o mediata. Il questionario include tre sotto-scale centrate sui seguenti aspetti personologici: 1. Coinvolgimento: cioè propensione ad essere passivamente coinvolti nel corso di spettacoli, letture ecc.; 2. Focus: cioè capacità di concentrarsi su attività piacevoli con l’esclusione di distrazioni esterne; 3. Games: in relazione alla frequenza d’uso di dispositivi elettronici, in particolare “videogiochi” e la tendenza a venirne coinvolti con un alto grado di “presenza”.
Risultati
Cercheremo di sintetizzare la grande quantità di correlazioni emerse dalla somministrazione degli strumenti presentati. Faremo riferimento ai risultati emersi per ogni fattore del Questionario ITQ appena descritto. Si tenga presente che gli esiti di questa indagine comprendono la rilevazione delle differenze di genere e di età in riferimento ai due gruppi esaminati, di cui il primo costituito da 168 partecipanti ai quali sono stati somministrati ITQ, LDM e SAR, e il secondo composto da 84 partecipanti ai quali sono stati somministrati ITQ, DES e STAXI.
Per la sottoscala Game i risultati non sono del tutto univoci. Come si può vedere dalle Tabelle 1 e 2 La tendenza a usare i videogame e ad immergervisi con l’esclusione di stimoli esterni, sembra in taluni casi costituire l’esito di una fuga sociale, in tal altri una strategia per amplificare le possibilità di socializzazione.
Tab. -1- Correlazioni tra il fattore Game e la SAR e l’LDM (Genere/Età- Uomini)
UOMINI |
- 42
SARScala Alessitimica RomanaDIEDifficoltà a Identificare le EmozioniPOEPensiero Orientato EsternamenteNHBisogno di relazioni armonioseSSAutosacrificioGAME< 40ANNINonSignificat.NonSignificativaNonSignificativar = 0.39p < 0.01r = 0.42p < 0.01GAME≥ 40ANNIr = 0.41p < 0.01r = 0.34p < 0.05r = 0.40p < 0.01NonSignificativaNonSignificativa
Tab. -2- Correlazioni tra il fattore Game e la SAR e l’LDM (Genere/Età- Donne)
DONNE |
- 42
SARScala Alessitimica RomanaESEEspressione Somatica delle EmozioniPOEPensiero Orientato EsternamenteHRRicerca di relazioni armonioseGAME< 40ANNIr = 0.34p < 0.05r = 0.35p < 0.05r = 0.41p < 0.01NonSignificativaGAME≥ 40ANNINonSignificativaNonSignificativaNonSignificativar = – 0.36p < 0.05
In generale si nota come all’aumentare dell’attitudine, comunemente ritenuta adeguata, all’uso dei video giochi (i giovani maschi sono comunemente più portati ad utilizzarli, anche in una modalità aggregativa) si riducono aspetti legati alla fuga sociale e/o alla gestione delle emozioni. Così, nei giovani maschi, troviamo che il videogame potrebbe anche essere un mezzo per raggiungere la socialità; mentre nei maschi adulti e nelle giovani donne è più l’esito di una relazionalità difesa, e di una effettiva fuga sociale nelle donne adulte.
Il costrutto sottostante il fattore Game sembra giustificare l’ipotesi secondo cui tale sottoscala tenderebbe a rilevare un temperamento teso a sostituire il virtuale al reale, con l’obiettivo di ottenere un contesto controllabile in cui proiettare elementi di coerenza che aiutano l’espressione delle emozioni, uno spazio alternativo ricercato come fuga sociale, un contenitore per elementi pulsionali socialmente non approvati come la rabbia, specie per il genere femminile. Tale tendenza può essere interpretata talora come espressione di una personalità dissociata o di eventi traumatici generanti stati dissociativi.
Se consideriamo però i giovani maschi del gruppo in esame notiamo come il virtuale si ponga in continuità e non in antagonismo con il “reale”, si ponga cioè come amplificatore della propria costellazione relazionale e emotiva. Riteniamo quindi che, con riferimento al futuro, la diffusione e la normalizzazione della fruizione dei videogames vedrà un progressivo passaggio verso la funzione aggregativa e di completamento che andrà a comprendere, in prima battuta, quella quota di soggetti che mostrano una posizione intermedia rispetto agli estremi presentati, ossia i maschi adulti e le giovani donne; in seconda battuta ricomprenderà anche le donne adulte, le quali sembrano avere una generale tendenza a vivere i videogiochi in modo disadattivo, ostentando una relazionalità di tipo conservatore.
Tradisce le nostre aspettative il fatto che con il genere femminile l’uso dei videogiochi si accompagni a uno stile relazionale evitante o difeso; si tenga inoltre presente che mentre per gli uomini la correlazione tra la sottoscala Game e l’età risulta significativa, per la componente femminile del gruppo tale correlazione si perde del tutto. Questo ci suggerisce che entrano in gioco aspetti evolutivi per gli uomini, mentre per le donne ci troviamo di fronte ad aspetti personologici di genere. L’uso dei videogiochi nei maschi adulti e nelle giovani donne costituisce quindi un sostituto gestibile della realtà sociale in funzione di tratti alessitimici. Nei giovani maschi l’uso dei videogiochi si presenta come esito, sostitutivo ovvero in continuità/completamento, di una ricerca di relazioni armoniose, anche con un notevole auto-sacrificio.
Nel gruppo di 84 partecipanti l’uso dei videogiochi e la tendenza ad immergervisi, conferma nuovamente la tendenza delle donne adulte ad impiegare i videogames come fuga sociale al fine di garantire l’espressione di emozioni socialmente non approvate. Si rileva infatti come la predilezione per i videogiochi risulta legata all’espressione della rabbia soprattutto nel sottogruppo dei soggetti maggiori di 40 anni, di ambo i generi (AX Out/ Game ≥ 40 anni: r = 0.39; p < 0.01). In tale sottogruppo si evidenzia anche una correlazione con la rabbia di stato che raggiunge una r = 0.50 (p < 0.001), correlazione che in seno alla componente femminile del gruppo in esame raggiunge addirittura livelli superiori (SRab/ Game-Donne: r = 0.57; p < 0.001). Nelle donne inoltre l’uso dei videogames correla significativamente con la disposizione ad esprimere la rabbia senza essere provocati (TRabT/ Game-Donne: r = 0.32; p < 0.05).
Sia per gli uomini sia per i soggetti di età inferiore ai 40 emerge poi una correlazione positiva con il fattore “Stati Dissociati” valutato attraverso la Dissociative Experience Scale (Uomini: Game/SD r = 0.34; p < 0.05; Soggetti < 40 anni: r = 0.35; p < 0.05). Ciò suggerisce che l’uso dei videogiochi può essere l’esito ovvero costituire il sintomo di una generale tendenza ad esperire stati dissociati. Non azzardiamo ulteriori interpretazioni pur essendo portati a ritenere che gli stati dissociati, spesso legati ad esperienze di stress postraumatico, possono costituire il trait d’union tra eventi traumatici e la tendenza ad usare/dipendere da videogiochi. Più ragionevolmente, partendo dall’idea che l’uso dei videogiochi possa costituire più una modalità soprattutto maschile, potremmo affermare che la correlazione con gli “Stati Dissociati”, nella parte del gruppo con età inferiore ai 40 anni, possa trovare una spiegazione nella generale tendenza all’emergere di un temperamento dissociato in fase adolescenziale; E che nella quota maschile adulta del gruppo indagato emerga proprio questo retaggio in forma regressiva.
Passando al Fattore “Involvement” (Coinvolgimento), troviamo una serie altrettanto numerosa di correlazioni di un certo interesse.
Tornando quindi al primo gruppo di 168 soggetti troviamo prima di tutto che la tendenza ad essere coinvolti in film, libri ecc. porta con sé una disposizione somatizzante per le donne e i giovani uomini. Mentre però nelle donne si riscontra la concomitante tendenza a non difendersi emotivamente nella relazione con l’altro, dato confermato dalla correlazione negativa tra il coinvolgimento e la difficoltà a comunicare le emozioni e con la difesa emotiva (DCE/ Coinvolgimento: r = -0.25, p < 0.05; EMD/Coinvolgimento r = 0.22, p< 0.05), nei giovani uomini tale tendenza si capovolge (Emotional Defensiveness (EMD)/Coinvolgimento r = 0.41, p < 0.01.). Sembra che la donna che si coinvolge è a suo agio, mentre l’uomo è difeso.
Nell’uomo adulto emerge, invece, che la capacità/tendenza a coinvolgersi è tanto maggiore quanto minore è quella a razionalizzare, ossia a difendersi nella relazione attraverso la razionalità. Si registra quindi un evoluzione nel genere maschile che vede la tendenza a difendersi nelle relazioni come modalità presente nei giovani maschi, ma che va scemando con l’età, per cui gli adulti che si coinvolgono impiegano meno meccanismi difensivi.
Procedendo con gli altri due strumenti e il gruppo di 84 partecipanti, notiamo le elevate correlazioni con il fattore “Assorbimento e Coinvolgimento Immaginativo” (ACI), la cui denominazione suggerisce di per sé una similarità di costrutto, ma anche con il fattore “Esperienze di Depersonalizzazione-Derealizzazione e Sdoppiamento” (EDDS), entrambi valutati tramite la DES.
Da queste prime evidenze, data la definizione del fattore “Assorbimento e Coinvolgimento Immaginativo”, otteniamo un solido e proficuo indice di validità concorrente che ci aiuta a definire il costrutto del fattore, anche alla luce del fatto che le correlazioni permangono prescindendo dalle differenze di genere e di età. Suggeriamo quindi la somministrazione congiunta degli strumenti.
Emerge inoltre come I soggetti giovani che tendono ad essere coinvolti sono anche coloro che presentano più spesso “Stati Dissociati” (INV/SD: r = 0.32, p < 0.05), e ciò si pone in continuità con quanto affermato in precedenza in merito all’emersione di stati dissociati in età adolescenziale, ossia come strategia relazionale, o di gestione emozionale temporanea.
Plausibilmente si evidenziano alcune correlazioni con i fattori legati alla gestione della Rabbia misurati tramite lo STAXI. Si rileva in generale una riduzione del tratto dell’ Involvement con l’avanzare dell’età, con la quale esso correla negativamente. Tale riduzione si snoda su di una progressiva acquisizione di strategie per l’espressione della rabbia, in luogo di quelle atte al controllo della stessa, in genere a scapito delle risorse psicologiche individuali. Infatti nei soggetti minori di 40 anni, emerge una tendenza a controllare l’espressione della rabbia (r = 0.35, p < 0.05.), mentre nei soggetti maggiori di 40 anni tale correlazione è assente. Compaiono due correlazioni, entrambe positive, con la tendenza/frequenza con cui si esprime la rabbia su oggetti e/o persone (AX-Out), e con l’espressione generale della rabbia (AX-EX), rispettivamente (r = 0.31, p < 0.05; r = 0.34, p < 0.05).
Infine si rileva nella sezione femminile del gruppo esaminato una correlazione positiva con la Rabbia di Stato (Srab r = 0.34, p < 0.05).
Con riferimento alla Scala Focus, sottolineiamo come tale fattore presenti una validità di costrutto, da intendersi qui in termini di coerenza interna della Scala (valutata tramite l’Alpha di Cronbach, piuttosto bassa seppur ancora significativa).
Ricordiamo che tale sottoscala raccoglie tutti gli item che si riferiscono alla capacità di destinare ampia attenzione, ed essere quindi intenzionalmente coinvolti, in attività piacevoli.
Un dato interessante è che tale fattore presenta tutte correlazioni negative con alcune delle sottoscale della Scala Alessitimica Romana, cosi come dell’LDM Inventory, correlazioni la cui consistenza aumenta con i sottogruppi distinti per genere e per età. Siamo quindi portati a ipotizzare che chi più facilmente si fa coinvolgere e presta attenzione attiva ad attività piacevoli, è anche colui che tende ad avere un buon rapporto con la sua emozionalità e impiega strategie relazionali equilibrate. Tale tendenza si accentua nella quota maschile del campione, nella quale si rileva però una correlazione positiva con la sottoscala Rat, dell’LDM Inventory, che valuta la razionalizzazione come difesa nelle relazioni interpersonali. Il che suggerisce un ipotesi diametralmente opposta, secondo cui le correlazioni negative con i tratti alessitimici possono costituire l’esito di una negazione delle emozioni, operata attraverso una estesa razionalizzazione, più che un effettiva capacità di essere in contatto con la propria emozionalità. Siamo di fatto propensi a privilegiare questa seconda ipotesi confermata, tra le altre cose, da una precedente ricerca preliminare su un gruppo di 122 soggetti, bilanciati per genere, dalla quale emergeva una correlazione positiva tra il fattore Focus e l’Adult Adolescent Type A Behaviour Scale, impiegato per valutare la motivazione al successo e cioè gli individui di Tipo A (r = 0.28 p< 0.001; mentre per gli uomini: r = 0.34 p< 0.05).
Considerando invece la quota femminile del gruppo in esame notiamo un’unica correlazione negativa tra il Focus e un fattore della SAR, ossia la “difficoltà a comunicare le emozioni”. A questa si accompagna anche una minore tendenza all’autosacrificio nelle relazioni, valutata attraverso l’LDM Inventory. Risultati preliminari sul gruppo di 122 partecipanti mostravano, inoltre, una correlazione negativa tra il fattore Focus con l’Ansia, sia essa di Stato che di Tratto, valutata per mezzo dello STAI.
Questi dati ci suggeriscono come nelle donne il “tratto” Focus sia più un indice di un ridotto disagio; la capacità di dedicarsi e prestare attenzione ad attività piacevoli potrebbe essere quindi intesa come effettiva per le donne, più strumentale negli uomini. Per contro potremmo ipotizzare che, la ridotta tendenza all’autosacrificio e alla ricerca di relazioni armoniose, così come l’assenza di ansia, sia più l’esito di un diffuso individualismo, con alte ambizioni personali e orientamento al compito, in accordo con quello che la correlazione con l’AATABS suggerisce. In sintesi saremmo di fronte ad un’istantanea del progressivo processo di emancipazione femminile in ambito lavorativo.
Meno interessanti e meno sostanziali appaiono i risultati emersi con il secondo gruppo in esame, a cui abbiamo somministrato lo STAXI e la DES. Nel gruppo totale degli 84 soggetti emerge per gli uomini una correlazione positiva con i livelli con cui il soggetto tenta di controllare la sua espressione della rabbia (AX/Con), valutata tramite lo STAXI (r = 0.36 p< 0.05). Ciò risulta in continuità con le ipotesi avanzate in precedenza.
Per certi versi i risultati rispetto al fattore Focus sono meno univoci. Infatti la correlazione con la motivazione al successo definisce il fattore, ma conduce su terreni lontani dalle specifiche del nostro strumento. Probabilmente si rendono necessarie ulteriori analisi, in particolare rispetto a eventuali correlazioni con i disturbi dell’attenzione più pertinenti rispetto al costrutto in gioco.
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Il Questionario sulle Tendenze Immersive è uno strumento che si articola su tre costrutti relativi alla tendenza ad essere coinvolti in ambienti virtuali “Coinvolgimento”, alla tendenza ad usare ed essere estesamente coinvolti nei videogiochi “Game” e alla capacità di concentrarsi su attività piacevoli con l’esclusione di distrazioni esterne “Focus”. Dall’indagine personologica emerge una non univocità dei risultati, tali per cui la tendenza a sentirsi “immersi” costituisce, a seconda del genere e dell’età, l’esito o la scaturigine di una personalità difesa o tesa alla fuga sociale attraverso la ricerca di contesti alternativi protetti, in cui portare pulsioni indesiderate. Ciò in accordo con quanto emerge nella letteratura relativa agli Internet Addiction Disorders (Young, 1998) ed alla Trance Dissociativa da video terminale (Caretti, 2000, 2001, 2005).
La tendenza ad essere “immersi” può costituire altresì la manifestazione di una generale tendenza a ricercare contesti intermedi in cui sperimentare le pulsioni in modo complementare, vale a dire palestre in cui prepararsi o completare la propria esistenza relazionale, senza per questo comprendere dimensioni patologiche, così come suggerisce Turkle (1997). I videogiochi acquistano, in tal modo una funzione aggregante per i giovani maschi e all’opposto per le donne adulte. Spesso siamo di fronte ad una strategia momentanea, specie nelle fasi di sviluppo, ovvero ad una strategia regressiva consolidata, particolarmente per gli uomini adulti.
Escludendo i videogiochi, l’essere coinvolti e concentrati sull’ambiente virtuale piuttosto che su quello fisico attuale rappresenta una manifestazione di fuga e di difesa fondata sul diniego più per il genere maschile, mentre per le donne è sintomo di continuità con l’identità di genere e di ambizione di riscatto sociale che correla con una non sempre congeniale gestione della rabbia ma anche con una maggiore capacità di contatto con le proprie e altrui emozioni.
Del resto la non univocità dei risultati rispecchia i diversi rilievi emergenti in letteratura: Tamborini et al. (2001) segnalano una ridotta violenza in chi fa uso di videogame violenti; mentre, dal lato opposto, ci sono evidenze di come l’uso di videogames e della rete spesso si presenti in forma di dipendenza (Tejeiro Salguero & Bersabé Moràn, 2002; La Barbera, 2005; Young, 1998).
Si ritiene che l’uso di nuovi media muova su un continuum che va dal normale al patologico sulla base di specifiche caratteristiche socio-demografiche, e nella misura in cui il loro impiego si ponga in continuità con il reale piuttosto che in un moto di divaricazione tra reale e ideale.
Il nostro gruppo di ricerca sta promuovendo delle prove empiriche per verificare la sovrapponibilità del vissuto estetico di fronte a opere d’arte originali e di fronte alle opere riprodotte in ambiente virtuale, nella prospettiva di verificare l’incidenza dei livelli di “presenza” e di “immersione” in compiti fondati su dimensioni affettive ed emozionali, piuttosto che su capacità cognitive. Ciò al fine di inaugurare un filone di ricerca che ricomprenda le dimensioni tralasciate dalle ricerche sulla “presenza”.
Con il rischio di essere banali, riteniamo che non siano strumenti disadattivi i nuovi media, quanto l’uso che se ne fa.
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